21 febbraio 2008

LE ORECCHIE LUNGHE

Tempo fa ero fermo in una strada centrale di Firenze. Aspettavo impaziente che Giulia decidesse quale DVD noleggiare per la serata: solite schermaglie tra horror e commedia brillante, il musical NO, forse uno qualsiasi con Ben Stiller o meglio con Bruce Willis, italiani NNNNNNOOOOO che mi deprimono a morte con le loro asfittiche storie di interni dimessi e tristi. Mi ero allontanato e già sentivo sulle labbra il Negroni che avrei ordinato poco dopo al BarAccio. Mi volto attirato da un rumore di passi leggero, accompagnato da una decisa carambola di suoni irregolari. Un ragazzo alto si avvicinava a passi lunghi e distesi, inseguito da un bassett hound al piccolo trotto. Si fermano davanti al distributore di sigarette accanto a me. Il ragazzo fruga nel portamonete alla ricerca di spiccioli, io e il cane iniziamo a fissarci. Il pensiero in superficie è quanto è bello questo cane, altero e posato nonostante le dimensioni alterate di zampe, orecchie, corpo. Il pensiero nascosto, affettuoso e morboso è caspita ti morderei le orecchie lunghe che hai, magari ne avessi io un paio uguali! Credo che il cane nella sua empatica intelligenza abbia percepito solo il pensiero segreto e privato perché subito inizia ad abbaiarmi con foga. AUGUSTO! SMETTILA!! Dice il ragazzo stringendo a sé il guinzaglio, guardandomi e scusandosi con un movimento appena accennato degli occhi. Io comprendo entrambi e vorrei prendermelo io il cane, vorrei avere orecchie lunghe e svolazzanti in corsa. Vorrei essere un bassotto e chiamarmi Augusto. Ma sono Ico e sono alto e le mie orecchie sono normali.

20 febbraio 2008

UNA VOCE POCO FA

In questa realtà ombelico-centrica io mi giro intorno. Questo è quello che mi riesce meglio, questo è il limite della comunicazione. Se cambio punto di vista è per fare esempi di bella scrittura. Non credo di avere qualcosa da dire, tuttavia mi diverto a scrivere e a pensarci sopra. Non credo che interessino le mie idee sul mondo sulla politica sull’amore sulla musica o sul cinema. In questo immenso gioco di specchi riflessi (o scatole cinesi) dove il ruolo di guida è una spensierata serendipity (trovi qualcosa che forse ti interessa non sapendo che esisteva e non sapendo neppure di cercarla), decido di inserire suggestioni di parole, ricordi e pomeriggi. Non mi aspetto di venir letto, né un grazie o un “è successo anche a me”. Voglio condividere qualcosa a cui tengo senza che qualcuno me l’abbia chiesto. Decido di espormi come non ho mai fatto prima. Ho smesso di scrivere su carta e ho iniziato a scrivere qui. Pensare che potevo anche farne a meno è legittimo. Qui non c’è nulla di necessario. Tranne il lusso di vivere il superfluo.

19 febbraio 2008

SCREWDRIVER

In principio era il cocktail. Ho letto da qualche parte che si fa con metà parte di vodka liscia e metà di succo d’arancia. E’ il cocktail preferito dagli studenti/esse dei college americani (ma chi scrive e comunica certe cose si sarà messo ad investigare o saranno le solite voci di corridoio? Boh...) perché facile da preparare (provateci anche voi, lo potreste fare anche ubriachi! Ah, dite che è per questo... ah, ecco...) inoltre scende giù che è una meraviglia e permette di disinibire cheerleaders minigonnate e rudi pupattoli ai primi incontri con l’alcol. Per divertirvi seguite le loro avventure su http://www.ratemyvomit.com/ ... c’è da sbellicarsi... oppure seguiteli nei loro rumorosi vagabondaggi per il centro di Firenze: dopo una certa ora sapranno comunicare al mondo tuuuutto quel che hanno mangiato e bevuto. Dopo questa divagazione tanto per ribadire quanto sono saputo passiamo al vero tema: il cacciavite (screwdriver, appunto). La mia giornata di sabato inizia con un appuntamento mattutino col signor Tonno (sì, quello del post precedente), ci siamo incontrati al banco pesce della Coop ed era lì, imbustato ed intonso, mai toccato. È stato aperto per me e da morto aveva un colore rosso vivo ed appetitoso. Ho preparato sushi e nigiri per me e per Giulia, la nostra cena e appena fatto pranzo sono partito per Firenze con le peggiori intenzioni. Il cielo sopra la toscana limpido e luminoso. A Firenze ho scelto il mio destino senza forzature o ricatti, consapevole che anche facendo tardi fuori, la cena era bella che pronta. Ho scelto Ikea. Ho scelto qualche ora di follia. Giulia ha scelto con gioia una scrivania marrone-nera perché betulla pù che schifo e una poltroncina nera regolabile in altezza ma molto cheap. Ho scelto di provare quasi tutti i letti e i divani nelle esposizioni allestite all’ingresso e cercavo pure i pelati nei ripiani delle cucine e perché questi fuochi non funzionano? Giulia ha scelto 6 piatti piani color avorio a 59 centesimi l’uno ma non c’erano abbinati i piatti fondi, solo scodelle da brodino per cui Giulia ha iniziato a scegliere tra i numerosi abbinamenti cromatici quello che le sembrava appropriato. Ho scelto, sbagliando, di dire: ma come, prima vieni qui, compri i piatti al prezzo più basso e poi passi anche tempo a scegliere quali colori stanno bene nella tua cucina color verde melma stinta piastrellata di bianco e ricami beige? Poi, ingenuo, ho voltato lo sguardo cercando un’anima affine per condividere la mia riflessione. Ho trovato lo sguardo smarrito e stupito di una coppia che si è letteralmente gelata alle mie parole e mi guardava come fossi sceso da marte. Mi guardavano, si guardavano, si voltavano a guardarmi ancora. In silenzio. Giulia intanto, abituata a ignorare l’estemporaneità di certe mie parole continuava indisturbata. E quei due si sono voltati a osservarla con imbarazzo e compassione. Io ho abbassato gli occhi colpevole e ho fatto in tempo a sentire la loro conversazione ripartire da dove l’avevo forse interrotta: coi sottopiatti blu e i piatti bianchi stava meglio la ciotola color glicine o quella ecrù? Ho avuto un momento di rivalsa quando mi sono imposto per far acquistare un lungo e lucido coltello a lama liscia. Poi abbiamo preso in magazzino la scrivania e la poltroncina e ce ne siamo andati. La cena era ottima, abbiamo reso omaggio al Tonno con uno Chardonnay Vie di Romans 2005, ottimo friulano da 14°. Alticci e sorridenti abbiamo iniziato a montare i mobili, dopo aver spostato un tecnigrafo da 100 chili per la stanza, mettilo lì, no, un po’ più vicino al muro, no ancora più verso la porta, ecco apri il piano, chiudi il piano, non spargere polvere. Per il montaggio bastava un cacciavite a stella. Ma le viti di ikea sono infide. Erano 20 e non ne è rimasta fuori neppure una. Ma la durezza del metallo nobile da cui erano state forgiate ha spanato e distrutto il cacciavite e il palmo della mia mano che cercava di avvitare. Se non fosse offensivo dire che dopo una certa età i lavoretti manuali andrebbero lasciati fare alle donne, lasciatemi almeno consigliare un buon trapano che rende tutti più felici.

15 febbraio 2008

SOUR SONG

Può la scrittura rappresentare accadimenti e sentimenti di persone che non si conoscono tra loro e vivono luoghi e situazioni diverse, senza un punto di contatto tra loro se non l’occhio trasversale di chi scrive? E può farlo mantenendosi coerente, cioè evitando sconnessioni e salti logici? E’ possibile parlare a tutti, comunicare senza imporre un punto di vista privilegiato? Molte cose da dire in questa lunga giornata. E le cose mie sono spesso irrilevanti. Da qualche parte una famiglia si occupa del più piccolo, che ha solo “tre tubicini e tanta voglia di ricominciare”. Da qualche parte una famiglia ricorda lo zampettìo insolente di una bassottina. Se adoro gli animali, se stravedo per i cani lo devo a Melissa, a Caterina, a Graziella. Questo pensiero, se mai passerete di qui, è per voi. Prometto di parlarne ancora. Da qualche parte una donna troppo intelligente e sveglia cerca la sua connessione senza fili, cerca di togliersi dagli impicci dell’università facendosi il minor danno possibile. Questo pensiero è per te. Da qualche parte un tonno è morto per farsi tagliare in striscioline sottili da mangiare crude. Grazie signor Tonno. Stasera non sono uscito, mi sono preparato da bere e andrò a dormire ad un’ora decente. Spero. E questo è per me.

13 febbraio 2008

E.R.

Dalla sedia blu con i braccioli, una donna ricciuta, gli occhiali sottili cocciutamente tenuti sulla punta del naso, abbraccia con lo sguardo l’intera sala di attesa del pronto soccorso. Tiene a mente chi va e chi viene e scrive minuziosamente, prima sul suo personale blocco per appunti , poi in bella copia sui moduli ufficiali. Scrive molto di più di quello che le persone dicono. E’ la responsabile del triage. Ha il potere di determinare l’ordine che i medici seguiranno nel prestare cure e medicazioni. Ha poche parole e molti sorrisi, al dolore di chi entra nulla di meglio da offrire di un composto e immoto sorriso: qui non ci agitiamo, qui sei al sicuro, qui ci prenderemo cura di te. Ha raggiunto un compromesso con se stessa, smetterà di lamentarsi ogni mattina per il colore mortificante del camice che deve indossare. Lei non presta cure, non tocca le persone. Lei ascolta e decide. Al massimo consegna le cartelle. Nulla più. Il suo è un ruolo di responsabilità, pensa. Mi serve un camice di un colore diverso. Pensieri simili si rincorrono nella mente di Lorenzina. Si susseguono senza cesure, talvolta senza censure e lei non sa fermarli. Sente la testa pesante, i piedi gonfi. Eppure ha iniziato il turno da meno di due ore. Sente la testa pesante, si ferma lungo il corridoio di sevizio e si appoggia al muro. Ha appena accompagnato in radiologia un giovane con un piede nudo, un piede grande e bianco. Si accarezza il collo. Cerca nella tasca del camice una gomma da masticare per rinfrescare l’alito. Era più alto lui seduto sulla sedia a rotelle di me in piedi. E di sicuro non aveva niente, non presentava nessun gonfiore né colorazione anomala. Lorenzina si stacca dal muro, riprende a camminare fino ad accostarsi al vetro dell’accettazione. Mara è sola nella stanza, continua a indossare il solito, ineffabile sorriso e quando si accorge di essere osservata accentua il ghigno e geme un acuto: sssiiiiiiiii???? Lascia Mara alle sue domande ed entra nella sala visite. Il dottor Brandi è chino sul petto di un’anziana signora a cui un cambio di dosaggio nelle medicine ha provocato una leggera tachicardia. Viene il turno di un operaio calvo e sudato che è scivolato mentre scendeva dal muletto. Tiene un sacchetto di ghiaccio sul ginocchio e in mano un bicchiere di plastica che non ha avuto ancora il tempo di gettare. Parla a voce alta, ripete: ho perso davvero tanti soldi! Se andavo a casa l’assicurazione mi pagava. E invece mi hanno visto tutti che sono caduto. Ora mi passano solo i giorni di infortunio, mannaggia quanti soldi ho perso. Lorenzina spera che almeno un occhio del dottore si posi su di lei. Uno sguardo diretto, però, non quello sguardo obliquo e indifferente che le riserva di solito. Arrossisce nell’attesa e decide di uscire dalla sala visite. La sala d’attesa è piena ora, sembrano tutti codici bianchi per fortuna. Mara si lima le unghie. Nessuno in fila per l’accettazione. Triage lo chiama, ridicola. E’ strano che ancora nessuno si lamenti per l’attesa. Eccolo che esce, quant’è alto, lo dicevo che non aveva niente.

7 febbraio 2008

UNDERWATER (un pensiero da leggere senza respirare)

° ° ° Vado, no rimango! Anzi no, ci penserò domani, dopotutto domani è un altro giorno per cambiare idea. Questa era una prova, no, non la prova generale: una prova in generale. Mi riconosco finalmente in quest’immagine allo specchio, ma sono io? Si, sono io. Io. IO, IO CHI? Leggero sott’acqua senza gravità, lento e attento. Non posso prevedere né controllare tutto quello che succede. E questo è tutto ° ° °

6 febbraio 2008

VIA PAAL

Ho aperto le prime pagine dei Ragazzi della via Paal e ho iniziato a leggere. Lì un gruppo di ragazzini, a scuola e nella loro città, si incontrano, si scontrano, creano alleanze e comunità, stanno insieme simulando i rapporti di forza del mondo adulto. Si formano. Mentre leggevo mi sono passate per la mente le immagini dei film di Truffaut dedicati ai piccoli, i “400 Colpi”, ovviamente, poi “L’argent de poche” (Gli anni in tasca). Poi sono scivolato nel parco della scuola di Sant’Andrea e gli alberi erano ancora alti e la gonna lunga a pieghe della maestra poteva essere una copertura dietro cui nascondersi nei momenti di gioco. E Francesca aveva guance rosse e sode e mi piaceva tanto. Ero (sono) figlio unico e dunque inevitabilmente refrattario a qualunque disciplina o gerarchia che non prevedesse me come vertice o centro di interesse. Mi sono perso così l’esperienza di partecipare organicamente ad un gruppo in cui la mia presenza fosse irrilevante. Con gli anni l’egocentrismo è esploso e solo adesso so, a volte, contenerlo. Il mio apprezzamento tardivo del più classico del cameratismo tra maschi ha radici qui: credevo fosse una perdita di tempo perché non l’avevo pensato io. Mi sbagliavo. Nella squadra dei maschi pensavo non ci fosse posto per me, inadeguato come mi sentivo. Ma non mi mancava niente. O meglio, mancava la consapevolezza di sé che solo un confronto aperto ti può dare. Ma io mi sottraevo. Lo posso dire ora che ho smesso, ora che ho capito e posso riprodurre quei pomeriggi solo nella mia testa o tuttalpiù su una pagina bianca. Per cui continuo a nascondermi dietro al pozzo di pietra vicino all’ingresso del parco. Conto le pietre e scovo gli animaletti. Guardo gli altri giocare insieme. Mi chiamano e smetto di fare finta di niente, mi alzo e li raggiungo.
Insomma tutta un’altra storia.

5 febbraio 2008

CARNEVALE

avvolgimi anche la testa non è per tenermi stretti i pensieri che ti chiedo di chiudermi gli occhi. bende per giocare mi libererò con un giro su me stesso e con un salto a piedi uniti tieni accese tutte le luci fame dammi ancora da mangiare e da bere avvolgimi non stringere stavo solo giocando girando attorno alle gambe quel paio d’alberi in movimento saltando per avere da mangiare dammi da mangiare e ora liberami spogliami fammi respirare avvolgimi le braccia e il corpo
guardami apro gli occhi e torno a giocare

2 febbraio 2008

NON HO MAI IMPARATO A FARE IL CAFFE’

Non ho mai imparato a fare il caffè. Di questo mi accusi. Come puoi offrire reali garanzie di affidabilità se non riesci neppure a coordinare un’operazione così elementare come quella di preparare un caffè? (ovvio che si parla di moka, niente cialde o astruserie moderne) Questa domanda, questa considerazione, rimbalza di bocca in bocca, pronunciata più volte. Tutte nella mia memoria a forma di groviera. In molti hanno pensato di regalarmi uno strumento nuovo, qualcuno c’è riuscito, qualche altro non ha fatto seguire il gesto all’intenzione. Di solito il caffè che preparo è solo per me. Lascio ad altri la preoccupazione dei loro palati offesi. Mi ritiro nell’odore acre del mio caffè sbruciacchiato. Anni fa avevo una cucina con un piano cottura infernale. Troppo distante il fuoco piccolo dal fondo della caffettiera: la polvere bruciava prima che il caffè uscisse. Troppo forte il fuoco medio regolato al minimo: la polvere bruciava prima che il caffè uscisse. Per fortuna non era solo un problema mio, chiunque (magistri caffettarum compresi) ha avuto problemi. Chi ha assaggiato quel caffè ancora storce la bocca.
Dunque il mio personale gusto non può essere preso a misura di un caffè ben fatto. Io apprezzo anche le ciofeche, le sbroscie, il caffè “americano”. Però apprezzo di più quando il caffè me lo fanno.

NEBBIE

La mancata comprensione delle vere ragioni per cui un computer può bloccarsi, arrendersi, addormentarsi di colpo come un narcolettico, non mi sconvolge più. Non mi interessano. Mi accanisco contro l’irragionevolezza di una macchina che ti lascia a piedi, contro la disumanità della Mano Destra che tradisce all’improvviso. Oggi per quattro volte consecutive. Se la reiterazione fosse un’aggravante per questo genere di delitti, anziché una spia della gravità del malessere della macchina, potrei bearmi e dire: basta pc, basta stampanti e server intasati.
Ho letto, non ricordo dove, qualcosa che ho sentito pericolosamente affine. Io sono un telo bianco, io divento quello che mi proiettano addosso: una fantasmagoria. I try to put my finger in it. You got into my bloodstream.