Ho aperto le prime pagine dei Ragazzi della via Paal e ho iniziato a leggere. Lì un gruppo di ragazzini, a scuola e nella loro città, si incontrano, si scontrano, creano alleanze e comunità, stanno insieme simulando i rapporti di forza del mondo adulto. Si formano. Mentre leggevo mi sono passate per la mente le immagini dei film di Truffaut dedicati ai piccoli, i “400 Colpi”, ovviamente, poi “L’argent de poche” (Gli anni in tasca). Poi sono scivolato nel parco della scuola di Sant’Andrea e gli alberi erano ancora alti e la gonna lunga a pieghe della maestra poteva essere una copertura dietro cui nascondersi nei momenti di gioco. E Francesca aveva guance rosse e sode e mi piaceva tanto. Ero (sono) figlio unico e dunque inevitabilmente refrattario a qualunque disciplina o gerarchia che non prevedesse me come vertice o centro di interesse. Mi sono perso così l’esperienza di partecipare organicamente ad un gruppo in cui la mia presenza fosse irrilevante. Con gli anni l’egocentrismo è esploso e solo adesso so, a volte, contenerlo. Il mio apprezzamento tardivo del più classico del cameratismo tra maschi ha radici qui: credevo fosse una perdita di tempo perché non l’avevo pensato io. Mi sbagliavo. Nella squadra dei maschi pensavo non ci fosse posto per me, inadeguato come mi sentivo. Ma non mi mancava niente. O meglio, mancava la consapevolezza di sé che solo un confronto aperto ti può dare. Ma io mi sottraevo. Lo posso dire ora che ho smesso, ora che ho capito e posso riprodurre quei pomeriggi solo nella mia testa o tuttalpiù su una pagina bianca. Per cui continuo a nascondermi dietro al pozzo di pietra vicino all’ingresso del parco. Conto le pietre e scovo gli animaletti. Guardo gli altri giocare insieme. Mi chiamano e smetto di fare finta di niente, mi alzo e li raggiungo.
Insomma tutta un’altra storia.
1 commento:
Caro Architetto,
lo sai che mi piace come scrivi?
^_^
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